Figli di nessuno by Hayden

Figli di nessuno by Hayden

autore:Hayden [Hayden]
La lingua: ita
Format: epub
pubblicato: 2012-09-06T09:36:54+00:00


Non corse via. Credevo che l'avrebbe fatto. Invece impugnò le forbici e le scagliò violentemente a terra. Poi chinò il capo, si coprì il viso con le mani e pianse.

Ero distrutta. Quella che mi aveva fatto era la domanda delle domande. Che diritto avevo, io, di fargli amare un mondo che non l'amava? Ogni volta che conoscevo un bambino, ogni volta che toccavo un bambino, quella domanda era lì, in attesa di una risposta. E lui non era il primo a dubitare che la conoscessi. Mi addolorava non conoscerla, non essere mai pienamente certa che la sofferenza che davo fosse migliore di quella che toglievo.

Di fronte a quel problema, le forbici che lui teneva in mano non avevano più importanza.

<Oh, Tommy.> Anch'io, adesso, piangevo. <Oh, Tommy, mi dispiace tanto.> Mi chinai su di lui e lo abbracciai.

Ci confortammo a vicenda. Ero in ginocchio, e lo stringevo a me. La mia paura non se n'era andata del tutto, e controllavo a fatica le mie emozioni. Sedetti per terra, la schiena ancora contro la porta, e mi presi Tomaso in grembo. Aveva undici anni, ed era già un ragazzone, quasi un uomo; ma non potevamo fare altrimenti. Lui mi si aggrappò al collo e nascose la faccia fra i miei capelli. Piangeva a singhiozzi sommessi, profondi, che gli scuotevano il corpo. Io lo cullavo, e cullavo anche me, dondolandomi avanti e indietro contro la porta e sussurrandogli parole dolci, quelle paroline un po' sciocche che soltanto l'amore conosce.

Avevo in cuore sentimenti troppo grandi per le lacrime.

La prima mezz'ora dopo la ricreazione mi era sembrata infinita.

Il resto della giornata passò in un lampo. Me ne stetti lì seduta, con Tom in grembo, almeno mezz'ora. Poi gli altri bambini cominciarono ad aver bisogno di me, e fui costretta ad alzarmi e a cercare di rimettere in sesto la classe. Ci muovevamo e parlavamo con quell'imbarazzata cortesia che segue sempre i momenti di grande rabbia.

Avrei voluto, più di ogni altra cosa, dedicare qualche minuto a Lori, perché sapevo quanto doveva essere sconvolta dopo l'accaduto; ma in quel quarto d'ora scarso che ci rimaneva non trovai il tempo di farlo. Dovemmo invece sbrigare tutte le faccende del venerdì: pulire, riordinare, preparare le schede di frequenza per la settimana dopo.

Tomaso vagava per l'aula. Come un cieco in un luogo sconosciuto, inciampava nei mobili, si spostava da un punto all'altro della stanza, barcollando, mentre noi lavoravamo intorno a lui.

Notai che Lori, di tanto in tanto, si fermava a osservarlo. Non riuscii a leggerle in viso i sentimenti come lei riusciva a leggere quelli degli altri.

Quando mi girai, vidi Tomaso che, chino sull'orsacchiotto, raccoglieva l'imbottitura da terra e gliela spingeva dolcemente nel corpo. Venne verso di me, docile, con l'orsacchiotto in mano.

<Credi di poterlo aggiustare?> domandò. Teneva la testa china, non osava guardarmi. <Forse potresti ricucirlo.>

Gli presi l'orsacchiotto di mano e lo esaminai. <Sì, forse sì.>

<Hai ago e filo? Potresti cucirlo?> Breve pausa. <Adesso?>

<Non so se ho tutto l'occorrente.>

<Potresti guardare? Per favore.>

Andai alla cattedra, portandomi appresso l'orsacchiotto ferito. Tomaso mi seguiva.



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